IV

Dal «Momolo cortesan» al «Teatro comico»

Ma nel 1738 il Goldoni passa decisamente dalle prove eclettiche delle tragedie, dei melodrammi, degli intermezzi, alla sua prima vera commedia, Momolo cortesan o L’uomo di mondo, e dal 1738 al 1743 scrive quattro commedie (Momolo cortesan, Il prodigo, La bancarotta, La donna di garbo) che rappresentano un concreto tentativo di accordare in maniera piú originale gli elementi offertigli dalla precedente esperienza in un’opera organicamente e nuclearmente comica, di accordare il ritmo della scena, il movimento esterno dell’azione e del personaggio (e si noti come è mobile continuamente il personaggio Momolo) con il ritmo piú intimo della vitalità cui egli in questo periodo si rivolge con un’attenzione ancora poco profonda e malcerta.

E nel tentativo di educare i suoi comici e il suo pubblico all’opera interamente scritta (la prima è appunto la Donna di garbo del ’43), egli utilizzava, nel compromesso di parti scritte e di parti «a soggetto», le risorse migliori della commedia dell’arte adattandole ad effetti comici legati ad una concezione organica della favola comica. Egli abbandonava l’inutile tentativo tragico e – scoperta, attraverso gli intermezzi, la propria natura comica – su questo terreno piú sicuro agiva con una serie di nuovi tentativi, ben diversi da quelli dei commediografi arcadici, anche se ispirati ad alcuni fini comuni, ché nell’educazione dei comici e del pubblico (comici professionali e pubblico indiscriminato, non dilettanti e pubblico di puri letterati) egli si preoccupava di non perdere le qualità migliori di tecnica e di vivacità della tradizione della commedia dell’arte e di servirsene per il proprio scopo di una commedia di «carattere» e di «costume», di una commedia in cui concretamente il ritmo teatrale si adeguasse ad una rappresentazione di vita contemporanea.

Purtroppo questa fase interessantissima, che conduce dal Momolo cortesan, con parti scritte e con parti lasciate alla inventività degli attori (con limitazioni sempre piú forti), alla Donna di garbo, non è per noi suscettibile di un preciso esame perché queste prime commedie (tranne appunto la Donna di garbo) furono in anni successivi scritte interamente dal Goldoni e noi le possediamo solo in questa nuova forma, sicché ci è anche difficile dare di queste un preciso giudizio sul valore della loro prima esistenza.

E si può spiegare in parte cosí anche l’impressione di una maggiore rigidezza della Donna di garbo, di una sua minore vivacità rispetto alle commedie cronologicamente precedenti che, nella stesura piú tarda, usufruirono evidentemente della maggiore esperienza del Goldoni che seppe a sua volta sfruttare convenientemente i vivi suggerimenti delle stesse invenzioni comiche dei suoi attori (specie del grande attore Antonio Sacchi) e utilizzare abilmente proprio il maggiore movimento libero ed estroso delle parti comiche lasciate all’inventività degli attori, di fronte alla maggiore monotonia della Donna di garbo.

Perché appare evidente che in questa prima fase del suo teatro comico il Goldoni, nel passaggio dall’iniziale compromesso tra parti scritte e parti a «soggetto» alla commedia tutta scritta, finí per inesperienza con l’accentuare nell’ultima una certa schematicità e rigidezza, puntando sulle qualità di organicità, di regolarità, di convenienza verosimile a scapito della comicità tanto piú libera nel Momolo cortesan, esagerando nella ricerca del «carattere» e cercando di supplire con mezzi ancora inadeguati alla vivacità delle battute libere e del movimento mimico dei suoi attori: donde, ripeto, l’impressione nella Donna di garbo, pur nel rilievo compiuto del personaggio centrale, di un gusto piú arretrato e persino di un linguaggio piú goffo ed incerto fra popolarità e letterarietà.

Tanto che piú tardi, nel 1745, il Goldoni insoddisfatto (malgrado il successo e la soddisfazione di avere offerto una commedia tutta scritta e d’altra parte recitabile da parte dei comici professionali e capace di interessare quel pubblico che non aveva accettato la commedia erudita arcadica) ritornerà nel Servitore di due padroni ad un nuovo e piú intimo contatto con la commedia dell’arte, a forme di scenario e di compromesso, quasi sentendo che la prova di superamento della commedia dell’arte non era pienamente soddisfacente e richiedeva una nuova e piú matura esperienza e una maggiore consapevolezza di fronte a quella «riforma» piú istintiva e superficiale.

Se dovessimo poi dare un giudizio sulla forma che piú tardi presero queste prime commedie nella loro rielaborazione tutta scritta, dovremmo riconoscere un particolare valore proprio al Momolo cortesan[1], cosí ricco di movimento comico – anche se ancora piuttosto dispersivo nelle varie scene, animate soprattutto dalla presenza del vitale protagonista, Momolo –, cosí piacevolmente veneziano nella bella apertura della commedia: l’arrivo dei forestieri dalla laguna con l’incontro del facchino Truffaldino e di Ludro, vivacissima figura di imbroglione sornione e spietato, negli interni della locanda di Brighella e della casa popolare della lavandaia Smeraldina, nella sua aria equivoca fra i sotterfugi della fanciulla che tiene a bada l’innamorato e il «protettore» e le bravate del fratello Truffaldino che vuol campare alle spalle della sorella. Gli elementi già offerti dagli intermezzi si fanno qui piú evidenti e costruiti, e il mondo delle maschere si apre al calore di una realtà guardata con crescente interesse, con un sorriso e con una simpatia che soprattutto diventano efficaci poeticamente nella creazione di Momolo, col suo scatto vitale e gioioso che ne fa l’elemento unificatore, la prima riuscita espressione del ritmo goldoniano.

Ad immediata riprova della vitalità del personaggio di Momolo, si veda, ad esempio, come nella scena 12 del I Atto, la contesa fra Ottavio e Lucindo, condotta su schemi ancora antiquati di «contrasto», si animi subito quando interviene appunto Momolo, questo personaggio cosí elastico e davvero goldoniano, con la sua azione e con il suo linguaggio veneziano, colorito, arguto, deciso e brillante.

Ottavio:

Anche di piú? Serrarmi la finestra in faccia? Non son chi sono, se non mi vendico. (strepitando)

Lucindo:

Quante volte vi si ha da dire, signore, che non vi accostiate alla nostra casa?

Ottavio:

Né voi, né chi che sia me lo può impedire.

Lucindo:

Troverà persone che vi faranno desistere.

Ottavio:

Chi saranno quelli che avranno tanto potere? Il vostro Momolo forse? Non lo stimo né lui, né voi, né dieci della vostra sorte.

Lucindo:

Questo è un parlare da quell’insolente che siete.

Ottavio:

A me, temerario? (cacciando la spada)

Lucindo:

Cosí si tratta?

(si pone in difesa colla spada. Si tirano dei colpi)

Momolo:

(esce dalla locanda) Alto, alto, fermève; tolè su el fodro, che i cani no ghe pissa drento.

Ottavio:

Per causa vostra, signore. (a Momolo, con isdegno)

Lucindo:

Egli ha perduto il rispetto a voi ed a tutta la nostra casa. (a Momolo)

Momolo:

Animo, digo, in semola quelle cantinele.[2]

Ottavio:

Non crediate già di mettermi in soggezione.

Momolo:

Voleu fenirla, o voleu che ve daga una sleppa?[3] (ad Ottavio)

Ottavio:

A me? Se non fosse viltà ferire un uomo disarmato, v’insegnerei a parlare. Provvedetevi di una spada. (a Momolo)

Momolo:

Eh, sangue de diana. Lassè veder. (leva la spada a Lucindo) A vu, sior bravazzo.

(si tirano con Ottavio, e Momolo lo disarma)

Piú deboli e meno ricchi Il prodigo (o Momolo sulla Brenta, 1739-1740) e La bancarotta (o Il mercante fallito, 1741) piú largamente scritti sin dall’inizio – che accentuano nella figura del prodigo e del mercante fallito (un Pantalone scontento e scialacquatore per i suoi rovinosi impegni di incurabile Don Giovanni) il movimento di una vitalità vogliosa e disordinata al centro di una vita veneziana di villeggiature e di società di mercanti (e dunque con interesse per noi anche di temi e di indicazioni storiche), ma che meno del Momolo cortesan appaiono artisticamente efficaci, malgrado il maggior impegno nello scavo dei «caratteri» piú complessi e piú interessanti. e tanto inferiore (anche se sempre con l’avvertimento che essa è davvero del ’43, mentre le altre le leggiamo in nuove stesure posteriori) appare la Donna di garbo, per la quale il vanto del Goldoni si spiega solo da un punto di vista di astratta riforma (commedia tutta scritta, con veri «caratteri») e proprio tenendo conto che i suoi elogi sono in funzione di quella storia della propria riforma fatta tanto piú tardi (nella prefazione all’edizione Pasquali e nei Mémoires) e non solo attento dunque a considerare le sue opere, piú che nel loro valore, nel loro significato di tappe di un cammino programmatico, ma anche troppo facilmente disposto a rivedere il passato come l’attuazione progressiva e puntuale di un programma chiarissimo sin dall’inizio, non come una esperienza in cui volontà e possibilità andarono successivamente arricchendosi e chiarendosi sino alla messa a punto piú decisa del Teatro comico nel 1750.

Comunque il Goldoni avrebbe potuto vantarsi della sua Rosaura come personaggio minutamente rilevato e coerente in tutte le sue espressioni, e di una certa omogeneità degli altri numerosi personaggi, ma non certo della vitalità di queste scialbe figure, né della vera vitalità della stessa protagonista che è sí inesauribile di trovate e di risorse per giungere al suo scopo (far ravvedere il suo seduttore assicurandosi la simpatia e la stima di tutta la sua famiglia), ma che – quasi schema pedantesco e astratto di tanti personaggi femminili volitivi ed invincibili – si trasforma in realtà in un figurino assai fastidioso di dottoressa saputa e sentenziosa, nel risultato ambiguo di un tour de force di abilità costruttiva con un ricorso, anch’esso assai pesante, a una cultura giuridica e letteraria (la fanciulla ha imparato di tutto un po’ nelle sue conversazioni con gli studenti dell’università pavese) piuttosto orecchiata; un ricorso che può indicare anch’esso come il Goldoni fosse, in questa sua positiva volontà di superare la commedia dell’arte, tentato dalle forme piú tipiche della commedia «letteraria» arcadica, sul tipo, per intenderci, della Dottoressa preziosa del Nelli.

Ma il Goldoni non proseguí su questa strada (pur conservando l’acquisto tecnico notevole nella costruzione coerente del personaggio che sarà la sua meta piú evidente per lunghi anni, e in certi procedimenti generali di costruzione) e, se il soggiornò pisano (dal 1744 al 1748) rafforzò e chiarí la sua adesione ai princípi della riforma arcadica, non fece di lui un commediografo alla Maffei o alla Martello (non avrebbe avuto neppure la sufficiente esperienza letteraria per mettersi sul piano specie del secondo) ed anzi proprio in quel periodo egli sentí il bisogno di una rinnovata esperienza a contatto con la commedia dell’arte non solo con alcuni scenari, ma con quel Servitore di due padroni (autunno 1745), con alcune parti scritte ed il resto a «soggetto», che sembra riprendere di nuovo da capo e piú da vicino l’esperienza iniziata col Momolo cortesan.

E questo incontro di una commedia concepibile nella maggior vicinanza possibile con le forme della commedia dell’arte e in un periodo in cui il Goldoni fece la sua maggiore esperienza di vita letteraria arcadica (è il periodo in cui egli fu accolto nella colonia Alfea con il nome di Polisseno Fegejo), dovrebbe far pensare assai sul delicato ed elastico rapporto fra la «riforma» goldoniana, la riforma arcadica e la commedia dell’arte. Infatti in questi stessi anni, mentre il Goldoni fa la sua esperienza piú viva di accademie arcadiche (a Firenze, a Siena, a Pisa) e si esercita persino nelle forme della lirica arcadica, e può cosí rinforzare le ragioni della sua originale adesione al programma della riforma arcadica del teatro comico[4], egli ritorna ad esercitarsi nella stesura di scenari dell’arte (come Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato) per il Sacchi, che glieli chiede da Venezia, e per il Sacchi scrive, con alcune parti scritte ed altre tracciate per la recitazione a soggetto, quel Servitore di due padroni che è la prova piú interessante del contatto del Goldoni con il mondo della commedia dell’arte, il documento piú singolare della maniera in cui egli (abbandonata provvisoriamente la commedia tutta scritta) tornava con maggiore intelligenza e capacità creativa ad enucleare la forza piú viva ed essenziale della commedia dell’arte: quel ritmo scenico e mimico, quello slancio dinamico che aveva affascinato il pubblico europeo al di là degli stessi espedienti lazzeschi e buffoneschi che difatti egli ridusse entro una linea piú rigorosa ed unitaria togliendone comunque la scurrilità e la grossolanità (sicché i suoi stessi scenari veri e propri, ripresi poi nel periodo francese, sono ben diversi da quelli tipici della commedia dell’arte per la loro maggiore castigatezza e per la loro maggiore nitidezza di svolgimento)[5].

Noi non possiamo, anche questa volta, giudicare Il servitore di due padroni nella forma originaria del 1745, ma anche nella stesura tutta scritta (forse del 1753, l’anno della Locandiera) possiamo ben osservare lo spirito essenziale di questa singolare commedia in cui Goldoni sembra volersi assicurare per sempre il succo piú puro della tradizione dell’arte, impadronirsi, in una prova cosí originale e coerente, di quella pura forza di azione mimica e scenica traducendola nel suo dialogo rapidissimo, in cui la parola è diretta indicazione del movimento, aderente espressione di un ritmo che non si arresta mai, mobile ed accelerato sino alla fine: sicché anche il relativo scavo dei personaggi è qui in funzione dell’essenziale movimento, del singolare dominio dell’azione teatrale impersonata soprattutto in Truffaldino (il servitore) che si impegna nella scommessa con se stesso di servire nello stesso tempo due padroni senza essere smascherato. Si rilegga la scena in cui Truffaldino in due stanze dell’albergo serve il pranzo ai due padroni in una girandola di trovate, di ripieghi comici che gli permettono di adempiere il suo compito senza tradirsi e movimentando e meravigliando gli attoniti camerieri della locanda:

Beatrice:

Truffaldino. (dalla camera lo chiama)

Truffaldino:

Vegno. (risponde colla bocca piena)

Florindo:

Truffaldino. (lo chiama dalla sua camera)

Truffaldino:

Son qua. (risponde colla bocca piena, come sopra) Oh che roba preziosa! Un altro bocconcin, e vegno. (segue a mangiare)

Beatrice:

(esce dalla sua camera e vede Truffaldino che mangia; gli dà un calcio e gli dice) Vieni a servire. (torna nella sua camera)

Truffaldino:

(mette il bodino in terra, ed entra in camera di Beatrice)

Florindo:

(esce dalla sua camera) Truffaldino. (chiama) Dove diavolo è costui?

Truffaldino:

(esce dalla camera di Beatrice) L’è qua. (vedendo Florindo)

Florindo:

Dove sei? Dove ti perdi?

Truffaldino:

Era andà a tor dei piatti, signor.

Florindo:

Vi è altro da mangiare?

Truffaldino:

Anderò a veder.

Florindo:

Spicciati, ti dico, che ho bisogno di riposare. (torna nella sua camera)

Truffaldino:

Subito. Camerieri, gh’è altro? (chiama) Sto bodin me lo metto via per mi. (lo nasconde)

Cameriere:

Eccovi l’arrosto. (porta un piatto con l’arrosto)

Truffaldino:

Presto i frutti. (prende l’arrosto)

Cameriere:

Gran furie! Subito. (parte)

Truffaldino:

L’arrosto lo porterò a questo. (entra da Florindo)

Cameriere:

Ecco le frutta, dove siete? (con un piatto di frutta)

Truffaldino:

Son qua. (di camera di Florindo)

Cameriere:

Tenete. (gli dà le frutta) Volete altro?

Truffaldino:

Aspettè. (porta le frutta a Beatrice)

Cameriere:

Salta di qua, salta di là; è un diavolo costui.

Truffaldino:

Non occorr’altro. Nissun vol altro.

Cameriere:

Ho piacere.

Truffaldino:

Parecchiè per mi.

Cameriere

Subito. (parte)

Truffaldino:

Togo su el me bodin; evviva, l’ho superada, tutti i è contenti, no i vol alter, i è stadi servidi. Ho servido a tavola do padroni, e un non ha savudo dell’altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro. (parte)[6]

Nel senso del movimento dell’azione teatrale Il servitore di due padroni è una commedia riuscitissima, vitale, di impareggiabile abilità e freschezza, ed essa costituisce un presupposto necessario della successiva opera del Goldoni che riempirà questo puro ritmo teatrale di nuova e complessa vita comica senza piú perderne l’acquisto fondamentale.

Ma si noti subito, contro le esaltazioni dilettantesche di questa commedia – come del piú vero Goldoni, come del Goldoni continuatore geniale della commedia dell’arte –, che essa è solo un’esperienza valida in un limitato momento dello svolgimento goldoniano e che il grande Goldoni è altra cosa ed anche sul piano del grande effetto teatrale, dello spettacolo comico si pensi ad una commedia come La figlia obbediente e se ne misurerà la diversa complessità, la diversa risonanza poetica.

Nel Servitore di due padroni il Goldoni ha fatto una prova di singolare interesse, ha approfondito il suo senso di ritmo teatrale, ha recuperato con maggiore energia il meglio della commedia dell’arte, ma poi non si è fermato a questo risultato parziale e di alta bravura, che è quasi nuovo e piú solido punto di partenza dopo le prime commedie del periodo ’38-43, ed ora egli ritornerà, con maggiore coscienza dei propri propositi rinnovatori e con maggiore sicurezza nei suoi rapporti con la commedia dell’arte (essendosene assicurato l’insegnamento piú valido), alla sua opera di commedia scritta, organica non solo nel ritmo di azione teatrale, ma organica nella forza di «carattere» (personale e sociale) dei personaggi e nella sua espressione di vita trasfigurata poeticamente[7].

E la vitalità, lo slancio libero che in Truffaldino (il vero protagonista della commedia) si traduceva in puro movimento teatrale, si esprimerà nella vitalità, nello slancio energico di personaggi complessi, densi di motivi poetici, ricchi di sentimenti umani, compiutamente rappresentabili ed operanti non in una pura serie di abili trovate e di irresistibili impulsi di movimento, ma in una loro logica interna, e in mezzo ad altri personaggi, in una scena che si farà sempre piú, essa stessa, precisa e concreta, reale e poetica.

Ma ciò che mi preme ribadire è l’importanza di questa commedia nello svolgimento goldoniano e proprio nel periodo in cui il Goldoni tornerà al teatro attraverso questa esperienza piú profonda della commedia dell’arte da cui potrà tanto meglio staccarsi proprio in quanto se ne sarà assicurato gli insegnamenti teatrali piú essenziali e in quanto d’altra parte avrà meglio chiarito, negli anni del soggiorno toscano, i termini della riforma arcadica e ne avrà rafforzato il proprio bisogno e la propria volontà di una nuova commedia, il senso della propria missione innovatrice tanto ormai superiore alla stessa riforma arcadica e ai suoi livelli storici, ideologici, letterari.

Nel 1747 la celebre visita del Darbes e del Medebach spinse il Goldoni ad abbandonare la professione di avvocato e a ritornare interamente all’attività teatrale come poeta comico della compagnia Medebach al teatro Sant’Angelo di Venezia; ed ecco una nuova serie di commedie che ci conducono sino alla Famiglia dell’antiquario, al Bugiardo, alla Bottega del caffè e al Teatro comico.

Ancora nel 1747 a Pisa il Goldoni scrisse due commedie (Il frappatore o Tonin bella grazia e I due gemelli veneziani) apposta per il Pantalone Darbes, significative e per questo singolare incontro dello scrittore con i suoi attori, e per lo stimolo che a lui veniva dalla destinazione di una parte alla viva persona che l’avrebbe rappresentata (ed in questa fase tutta la commedia spesso è in funzione del personaggio centrale e del suo interprete) e per il tentativo che rappresentano di legare, piú saldamente che nel Servitore di due padroni, il ritmo scenico e l’intreccio a un personaggio meglio caratterizzato anche se nell’equivoco di un attore che rappresenta due personaggi esteriormente simili, intimamente diversi (I due gemelli veneziani).

E questo tentativo, ancora qui assai limitato nel prevalere del giuoco scenico (che rese celebri soprattutto I due gemelli veneziani), si sviluppa nelle commedie seguenti in cui la caratterizzazione del personaggio centrale tende ad assimilare nel suo movimento intimo e soprattutto nella sua reazione esterna il movimento di azione prima assicurato solo alla vitalità meccanica di un personaggio-pretesto come Truffaldino: specie nella Vedova scaltra (1748) che sembra quasi una ripresa piú abile e matura di uno schema diversamente provato nella Donna di garbo (e nel personaggio, lontano presentimento di Mirandolina: ché in questo periodo il maggiore scavo di carattere fu fatto dal Goldoni intorno al personaggio femminile scaltro, volitivo e affascinante ed intorno al personaggio virile fra patetico, saggio e comico di Pantalone), e, con maggiore sforzo di creare uno sfondo vivo di personaggi minori, nel Cavaliere e la dama.

Ma intorno a questo motivo fondamentale (l’accordo fra ritmo teatrale e ritmo della vita soprattutto attuato nel vivo movimento intimo ed esterno del personaggio centrale) che si farà tanto piú sicuro attraverso le commedie del ’50-53, il Goldoni esperimenta diversi mezzi di arricchimento della sua commedia nel ricorso a intrecci mutuati dalla sua pratica forense (L’avvocato veneziano) o al romanzesco come nella Erede fortunata, o nell’Uomo prudente, in cui però il romanzesco (con tendenza addirittura a soluzioni drammatiche) si subordina ad una tendenza fra sentimentale e realistica che trova la sua espressione piú interessante non tanto nel noioso e languido Il padre di famiglia (che fa ripensare per il suo moralismo agli Allievi delle vedove del Nelli), quanto nelle due commedie del ’48, La putta onorata e La buona moglie (che è la continuazione della prima e costituisce una ripresa accentuata dei suoi motivi costitutivi).

In queste due commedie un maggior impegno morale e sentimentale (pur con pericoli di moralismo e di sentimentalismo esagerati e retorici) fa da lievito ad una rinnovata attenzione alla realtà, sentita meno pittoresca e leggiadra che nel Momolo cortesan e negli intermezzi, piú essenziale (anche se sempre un po’ troppo dispersiva, e troppo intenzionalmente presentata) alla complessa volontà di una espressione piú intera e completa del ritmo vitale, ben al di là delle pure interpretazioni di giuoco scenico del Servitore di due padroni. In tal senso queste due commedie, che pur presentano tante ingenuità, tanti pericoli, e un certo squilibrio generale, sono però molto interessanti e non mancano di un loro fascino, anche se si rifiuta l’ipotesi poco provata di una loro priorità nella formazione della commedia lacrimosa borghese, e si superano i vecchi entusiasmi di fine Ottocento che vi vedevano un esempio di puro realismo, di precorrimento del dramma ottocentesco (e per primo il Rovetta parlò dell’Onore del Sudermann).

Si noti soprattutto in queste due commedie la presenza piú scoperta – e in una inclinazione piú patetica e moralistica – di elementi che, già in parte affiorati in scene precedenti, saranno poi ripresi e fusi, armonizzati nell’alta misura di ironia e tenerezza degli anni piú tardi. L’attenzione del Goldoni si rivolge ad un ambiente familiare popolare preso fra una casa di nobili viziosi in decadenza economica e il mondo rude ed istintivo dei barcaioli, e nella rappresentazione di una vicenda in due parti (le nozze di Bettina e Pasqualino malgrado gli intrighi del vizioso conte Ottavio innamorato della fanciulla, prima, poi la vita infelice di Bettina trascurata dal marito rivelatosi debole alle tentazioni del giuoco e delle donne e trascinato dal malvagio Lelio, insidiata dal conte Ottavio, ma forte della protezione del paterno e saggio Pantalone, padre di Pasqualino, e della propria incrollabile purezza e del proprio amore al marito ed alla famiglia) complicata da trovate romanzesche e ad effetto (la morte di Lelio nella rissa dei barcaioli, il tentativo di ratto di Bettina ecc.), irrorata abbondantemente di lacrime e di lamenti patetici, la viva eco della realtà veneziana nelle sue classi sociali, nella sua scena cittadina di strade, canali, campielli (vi sono perfino rudi scene di liti fra gondolieri che sulla loro gondola non vogliono ceder luogo ad altre gondole – La putta onorata, Atto ii, scena 21) si fa sentire con forza e quasi con una evidenza che il Goldoni piú tardi tenderà a rendere piú musicale ed ariosa e non per ciò meno concreta. Le due commedie sono piene di testimonianze dell’acuita attenzione del Goldoni per la realtà di una vita che fin allora aveva osservato con maggiore interesse per il suo aspetto pittoresco e che poi renderà poeticamente trasfigurata con tanta maggiore unità, interpretandone la suggestione piú profonda in misura di tenera limpidezza, di sorriso affettuoso: si pensi alle didascalie insolitamente lunghe e indugianti a descrivere particolari precisi di luogo[8], ai dialoghi fra i barcaioli ed allo stesso loro linguaggio spregiudicato (vero e proprio gergo chiuso e appuntito al massimo)[9], alla scena della osteria con gli scherzi grossolani dei dissoluti e delle donne di piacere, e, al di qua di queste insistenti rappresentazioni realistiche piú crude e pesanti, si rileggano le aperture ariose di certe scene della Putta onorata con Bettina che lavora sull’altana e si gode il sole e lo scorrere placido delle ore o le scene iniziali della Buona moglie (complessivamente migliore) cosí interessanti nella rappresentazione del chiuso ambiente domestico fra la pace dell’intimità insaporita dalle cure rivolte dalla giovane madre e dalla piccola fantesca al bimbo in fasce e la pena della buona moglie nell’attesa vana del marito scioperato.

Ed è soprattutto là dove la rappresentazione della realtà si fa piú lieve ed in accordo con la pena e le ansie e i conforti della umile donna (viva con la sua forza di purezza e di caparbia fedeltà al dovere domestico e coniugale, ma piú ancora – ché in quella forza essa rischia una certa retorica della virtú – con la sua tenacia vitale, con la sua concretezza di massaia nella difesa della sua felicità e della sua pace familiare) che si toccano i punti piú convincenti di queste commedie, come nei colloqui patetici con il debole e tentato Pasqualino.

Bettina trova le sue parole piú intime e poetiche quando la sua virtú si fa piú semplice, poco declamata, e si concreta in slanci[10] coerenti a questo motivo poetico (qui solo inizialmente segnalato) di una vita comune e modesta, osservata con attenzione ed amore quanto piú apparentemente poco interessante e convenzionalmente impoetica.

Ma queste commedie non sono solo interessanti per l’inclinazione che il Goldoni vi mostra ad un impegno maggiore nella rappresentazione della vita (malgrado le intemperanze dell’intrigo romanzesco e l’eccesso del patetico che è pure spia di un approfondimento sentimentale anche se non tutto riuscito artisticamente) e per la ricchezza di elementi indicativi per la sua arte matura: esse, già in se stesse e nella fase di cui ci occupiamo, mostrano lo sforzo sempre piú forte del Goldoni di superare in profondo il semplice giuoco scenico, di accordare il ritmo teatrale con la rappresentazione concreta del ritmo della vita, di una vita particolare e concreta, anche a costo, come in questo caso, di non raggiungere l’equilibrio della costruzione generale piú facilmente ottenuto in opere meno impegnative come la Vedova scaltra.

Equilibrio che viene invece di nuovo raggiunto con una formula meno impegnativa, ma pure assai superiore a quella della Vedova scaltra e con una ricchezza ben diversa dal puro giuoco scenico del Servitore di due padroni, nella Famiglia dell’antiquario (1749), notevole sintesi delle qualità e dei mezzi di cui in questo periodo il Goldoni si era reso padrone. In questa commedia infatti una situazione precisa e limitata (senza lo sforzo e l’eccessiva dispersione delle due commedie di Bettina), ricca di riferimenti concreti alla vita ed al costume contemporaneo (l’urto non solo fra due generazioni e due elementi essenziali di tensione in una vita familiare: suocera e nuora, ma fra due condizioni sociali su cui tante volte il Goldoni insisterà: la giovane figlia del mercante ricca e consapevole del valore del suo denaro e la matura dama orgogliosa e spiantata), giustifica il ritmo scenico intimamente e questo si svolge coerentemente allo svolgersi della situazione e del contrasto vivo dei personaggi in un disegno animato e vibrante di interesse artistico e psicologico, non solo di bravura e di puro movimento teatrale. E se la linea secondaria, impersonata nello sciocco antiquario e nel suo servo truffatore, è piú debole e farsesca (e la pittura della mania «antiquaria» è persino troppo vistosa e caricaturale), essa non rimane però slegata, e la sbadataggine del conte Anselmo fa chiaroscuro sensibile con la saggezza borghese di Pantalone, come questa dà rilievo alla comica malvagità dei cavalieri serventi intriganti ed insinceri e tutto ruota assai coerentemente intorno al contrasto di suocera e nuora, anche se la tendenza a rilevare soprattutto la vitalità di un personaggio centrale si dimostra nella chiara superiorità del personaggio di Doralice, cosí viva nella sua flemma e nella sua caparbia volontà, nei suoi estrosi capricci e nella consapevolezza e nell’abile sfruttamento delle sue doti di gioventú, bellezza e ricchezza.

Era insomma una prova di equilibrio artistico che presupponeva già una lenta maturazione di esperienza tecnica, un risultato che superava le prove di pura abilità scenica e quelle di coerenza piú rigida e programmatica nel carattere, in un migliore accordo fra ritmo teatrale e svolgimento di situazione viva e concreta (come ben si può vedere soprattutto nella scena 6 del III Atto, in cui il movimento nella camera in cui i cavalieri serventi, i mariti, Pantalone e Colombina vanno e vengono dalle camere delle due donne, è abilissimo, ma non gratuito come prova di abilità, bensí giustificato ed in funzione di un movimento della situazione e dell’animo dei personaggi): certo rimaneva fuori lo sforzo maggiore di complessità e di impegno morale e realistico delle due commedie di Bettina, che rimangono prove promettenti e dispersive, per ora un po’ isolate, ma La famiglia dell’antiquario costituiva un vero punto di arrivo e una solida base di partenza in quegli anni decisivi per lo sviluppo del teatro goldoniano.


1 Nella prefazione il Goldoni disse di avervi cambiato «moltissimo» (Opere, ed. cit., vol. I, p. 781).

2 Che ponga la spada nella crusca, per ischerno. (N.d.A.).

3 Schiaffo. (N.d.A.).

4 E certo in Toscana egli avrà avuto modo di meglio conoscere, anche attraverso le loro recite, le commedie del Gigli, del Fagiuoli, del Nelli (per le quali rinvio al mio vol. L’Arcadia e il Metastasio cit.).

5 Cosí nel Servitore di due padroni (per dare solo un esempio) il noto «lazzo della pellegrina», che consisteva nel replicato e scurrile inchino alla rovescia, si stilizza in un semplice volger le spalle all’interlocutore (si veda Atto ii, sc. 2).

6 Il servitore di due padroni, Atto II, sc. 15.

7 Quello della continuità goldoniana rispetto alla commedia dell’arte è uno dei problemi una volta piú dibattuti dalla critica goldoniana (cfr. nel senso della continuità il rigido studio di O. Marchini Capasso, Carlo Goldoni e la commedia dell’arte, Bergamo 1907 e poi Napoli 1912, e i saggi di M. Ortiz su La cultura del Goldoni, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1906, e su Il canone principale della poetica goldoniana, in «Atti dell’Accademia di Archeologia ecc.», Napoli 1905, tanto piú ricchi e giusti nel rifiutare la tesi opposta di tipo carducciano di un’assoluta estraneità del Goldoni all’utilizzazione della commedia dell’arte, ma alla fine anch’essi troppo profilati nella direzione della ripresa e continuità). In realtà se non c’è dubbio che Goldoni trasse alimento da quella grande tradizione nei modi qui da me indicati, altrettanto sicuro è il fatto che il nuovo poeta teatrale operò progressivamente in direzione opposta a quella della commedia dell’arte e che molto discutibile e addirittura inaccettabile è – fra critica e regie – il voler «ricondurre indietro» Goldoni e riportarlo nel bozzolo da cui era uscito e andar magari a ritrovare nei personaggi dei Rusteghi le maschere, ormai, a quell’altezza, del tutto abbandonate e superate in caratteri contemporanei e giustificati fuori degli stereotipati contorni delle maschere.

8 Ad esempio all’inizio della scena 12 del III Atto della Putta onorata: «Veduta del Canal Grande con gondole. Da una parte il casotto di tavole, che introduce in teatro. Piú in qua la porta per dove si esce di teatro, ed il finestrino ove si danno i viglietti della commedia. Un ragazzo, che grida di quando in quando: A prendere i viglietti, siore machere; diese soldi per uno, e el pagador avanti, siore machere. Dall’altra parte una banchetta lunga per quattro persone. Ed i fanali qua e là, come si usa vicino ai teatri. Passano varie maschere e vanno alcune a prendere viglietti, indi entrano nel teatro, e alcune vanno senza viglietti; poi passa Nane barcaiuolo con il lampione, conducendo maschere al teatro ecc.».

9 Si veda fra l’altro la scena 4 del III Atto della Buona moglie con invettive e persino con «versacci con la bocca». Ed anche nella descrizione della vita di Bettina intorno al piccolo lattante non manca il rilievo di particolari realistici (Atto I, sc. 3).

10 Come nella bella scena 22 del II Atto della Buona moglie in cui Bettina offre al marito, per pagare i debiti e ricominciare una vita tranquilla, i suoi «manini» (braccialetti), a cui era tanto attaccata come ricordo del matrimonio e come segno della sua condizione civile.